The Daily Chronicle
4/3/2025Vol. XCIX No. 135
Dazi di Trump, ecco l’impatto su Pil e conti pubblici italiani
I dazi di Donald Trump, soprattutto i dazi reciproci del 20% imposti all’Unione europea, non potranno che avere effetti recessivi sulla nostra economia. L’entità potrà essere valutata solo nei prossimi giorni e certamente il Governo dovrà tenerne conto nel formulare il nuovo quadro macroeconomico e di finanza pubblica con il “nuovo Documento di economia e finanza” che avrà una proiezione triennale con al centro le dinamiche tendenziali a legislazione vigente, oltre a contenere l’aggiornamento del Piano strutturale di bilancio.
L’impatto sull’economia
Se si considera che l’Italia è un paese con una forte vocazione all’export, i dazi di Trump rischiano di costare caro. L’export italiano negli Usa ha superato i 64 miliardi di euro nel 2024, secondo l’Osservatorio economico sui mercati esteri del Governo, con una crescita di oltre il 42% dal 2019 e un leggero calo rispetto al 2023. Sono 3.300, secondo l’Istat, le imprese più a rischio, in particolare nel settore farmaceutico, nei prodotti meccanici come turboreattori e turbopropulsori, gioielleria, cibo, vino, olio e mobili.
Il Centro studi Confindustria segnala che i settori dove le esportazioni americane pesano di più sono quelli delle bevande (negli Usa il 39% dell’export extra Ue), gli autoveicoli (30,7%), gli altri mezzi di trasporto (34%) e la farmaceutica (30,7%). Secondo la Svimez, con dazi al 20% l’agroalimentare, il farmaceutico e la chimica rischiano una perdita delle esportazioni tra il 13,5 e il 16,4%. Moda e mobili si difenderebbero meglio, e andrebbero incontro a un -2,6%. La Coldiretti indica, solo per il vino, costi di 6 milioni al giorno per le cantine italiane.
Quale l’effetto sulla crescita?
Le stime non possono che essere provvisorie in attesa anche delle contromosse che saranno messe in campo dall’Unione europea, essendo del tutto evidente che l’Italia non potrà che allinearsi alla risposta europea, e non certo avventurarsi in pericolose trattative bilaterali con gli Stati Uniti. Nei mesi scorsi, Svimez aveva calcolato che dazi al 10% su tutti i prodotti avrebbero provocato una contrazione del Pil italiano dello 0,1%, una perdita di 27 mila posti di lavoro e una riduzione del 4,3% dell’export. Con dazi al 20%, l’impatto sarà doppio.
Stando alle più recenti anticipazioni, il Governo si appresterebbe a stimare per l’anno in corso una crescita dello 0,8-0,9% rispetto allo 0,7% del 2024 e all’1,2% della precedente stima. Per Confindustria quest’anno non si andrebbe oltre lo 0,6% (1% nel 2026): uno scenario che incorpora l’effetto all’impennata dell’incertezza causata dagli annunci di dazi, con l’ipotesi che si protragga per la prima metà del 2025; se persistente, rappresenterebbe un forte limite alla crescita, in quanto influirebbe negativamente sulle decisioni di investimento domestiche e internazionali.
Occorre mettere in campo scelte che comportino anche interventi sul versante dell’energia. «Ll’Italia – osserva il presidente di Confindustria Emanuele Orsini - non può pagare il 78-80% in più della Francia. Non saremo mai attrattivi per le produzioni industriali europee ed industriali». E, poi, occorre agire anche sulla burocrazia che «vale 80 miliardi di euro all’anno per le piccole e medie imprese, più di tre finanziarie». Per l’Ufficio parlamentare di Bilancio (stime dello scorso 5 febbraio), quest’anno il Pil dovrebbe attestarsi attorno allo 0,8%. Previsioni che incorporano il profilo di spesa relativo ai programmi di investimento del Pnrr, che tuttavia potrebbero essere oggetto di revisione, con particolare riguardo alle tempistiche. Secondo le ipotesi più pessimistiche, l’impatto dei dazi sul nostro Pil potrebbe anche essere più consistente, fino allo 0,5%, portando in tal modo la crescita dell’anno in corso assai vicina allo zero.
L’impatto sui conti pubblici
In attesa di sapere se il Governo intenderà o meno ricorrere al meccanismo predisposto dalla Commissione europea (Safe) relativamente alle spese per la difesa (nuovo debito europeo per 150 miliardi di euro da distribuire ai Paesi che lo vorranno sotto forma di prestiti), attivando al tempo stesso la clausola di sospensione dal calcolo del deficit per circa l’1,5% del Pil l’anno, si fanno i conti partendo dai dati. Nel 2024 la spesa per interessi è cresciuta del 9,5%, e il debito è previsto in aumento al 136,9% nel 2025 e al 137,8% nel 2026, rispetto al 135,3% del 2024. Il tutto senza dimenticare che, se pur in presenza del ritorno all’avanzo primario (+0,4%) la manovra per il 2025 già prevede un incremento del disavanzo per 48 miliardi nel triennio 2025-2027.
La revisione al ribasso delle stime di crescita non potrà che avere effetti ulteriori sull’andamento del deficit e del debito, tenendo conto che andrà onorato l’impegno a un aggiustamento minimo strutturale pari allo 0,5% del Pil l’anno per sette anni (attorno ai 12 miliardi). Nell’attuale scenario programmatico (che sarà aggiornato a settembre) il deficit dovrebbe attestarsi quest’anno al 3,3% del Pil (rispetto al 3,4% del 2024 e al 7,2% del 2023). Tutte cifre che confermano la prudenza del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti che da tempo va ripetendo che Il problema numero uno è la necessità di rifinanziare il debito ogni due settimane. Un vincolo «da cui non si può prescindere». E il responso dei mercati è decisivo.